IL PAGAMENTO DEL MUTUO NON SOSTITUISCE IL DOVERE DI MANTENERE LA PROLE
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01/12/2025Per casa familiare si intende giuridicamente l’immobile adibito dalla coppia genitoriale a centro stabile degli affetti della famiglia nucleare, è quell’abitazione dove i figli sono nati e/o cresciuti e, nello specifico, risultano avere instaurato consuetudini di vita insieme a loro.
Il complesso di norme che disciplina la relativa attribuzione in godimento all’atto della cessazione della convivenza in seguito alla crisi di coppia mira alla tutela della prole minorenne o maggiorenne, ma non ancora autosufficiente convivente.
Infatti il diritto personale di godimento esclusivo dell’immobile adibito a casa coniugale è attribuito all’uno o all’altro genitore (anche a prescindere dalla titolarità di tale bene in capo all’assegnatario) in ragione del fatto che i figli rimangano con lui collocati al suo interno, in quanto dal tribunale ritenuto più idoneo a con loro convivervi e di loro occuparsi.
Il diritto di proprietà del bene immobile è un elemento che viene tenuto in considerazione, ma in via residuale, non determinante, nella scelta del destinatario di tale attribuzione, il quale potrebbe anche non avere alcun diritto di proprietà su tale bene, ma essere valutato come il più idoneo dei due a continuare la convivenza in casa con la prole.
L’articolo del codice civile che sancisce tale principio e ne sancisce i presupposti è l’art. 337 sexies c.c.: “il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli” e specifica che di tale “assegnazione il giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori” appunto considerato l’eventuale titolo di proprietà, ma sempre in via rafforzativa o diminutiva, non fondamentale per vedersi riconosciuto il diritto, che dipende da altri fattori ed elementi ben più determinanti a tutela del minore.
“Il diritto al godimento della casa familiare viene meno nel caso che l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva mora uxorio” ossia abbia una convivenza di fatto “o contragga nuovo matrimonio”.
Proprio in relazione a tale ultimo capo della norma in esame si inserisce la pronuncia della Corte di legittimità n. 25403 del 16 settembre 2025, provvedimento all’interno del quale – esaminati i fatti secondo il loro cronologico accadere – gli Ermellini paiono stravolgere l’essenza stessa del diritto all’assegnazione dell’immobile al genitore che si occupa del minore in via prevalente ovvero il diritto di conservazione di quell’habitat domestico che la normativa stessa che lo prevede si propone di tutelare.
La fattispecie riguarda la cessazione di una convivenza di una coppia more uxorio iniziata a gennaio 2022, cui era seguita a metà settembre dello stesso anno la nascita di una bambina e, due soli mesi dopo, in concomitanza con la crisi e il relativo procedimento giudiziario, il trasferimento della madre con l’infante presso la famiglia di origine in altra regione italiana.
A marzo 2023 il Tribunale assegnava, ciò nonostante, alla madre la casa familiare in cui la coppia aveva in origine convissuto, incurante del fatto che gli ultimi cinque mesi fossero stati trascorsi da tale genitore con la piccola altrove presso i nonni materni e che, pertanto, i soli primi due mesi da neonata, nel corso dei quali – sia in ragione appunto della condizione neonatale, sia in relazione all’irrisorietà del tempo di permanenza ivi trascorso – la bambina difficilmente avrebbe potuto dirsi aver sviluppato un attaccamento a luoghi e/o persone, ratio del provvedimento di assegnazione, come invece cominciava forse a fare nella sistemazione attuale presso i nonni.
Il padre della minore reclamava il provvedimento avanti alla Corte d’Appello competente, senza esito positivo alcuno, lamentando la qualificazione della casa assegnata come familiare e il difetto dei presupposti fondanti il provvedimento di assegnazione.
Sotto il primo profilo rilevava: inesistenza di una stabile convivenza, assenza di un’astratta “destinazione famigliare” dell’immobile, la brevissima permanenza ivi della minore e il trasferimento altrove che aveva reciso qualsivoglia legame con il primo immobile.
La Corte di legittimità, nella pronuncia sopra richiamata, concentra il suo focus sulla definizione di “casa familiare”, piuttosto che sui criteri per la sua attribuzione. Per a Corte non è tanto importante che si riscontri l’esistenza di un habitat da preservare al momento in cui il conflitto è insorto, quanto “dal fatto che, presso tale abitazione, madre e figlia risiedono ormai da oltre un anno”.
Se la Suprema Corte si fosse limitata a tale affermazione, nulla quaestio, tuttavia – del tutto contraddittoriamente e illogicamente – nell’ordinanza si legge anche: “Il giudice chiamato a fissare la regolamentazione a seguito della crisi familiare, nel decidere se assegnare la casa coniugale, deve tener conto esclusivamente del primario interesse del figlio minore a beneficiare dell’abitazione in cui quest’ultimo ha vissuto quando la famiglia era unita (che in quanto tale è proiezione dello spazio della sua identità all’interno di uno specifico contesto ambientale e sociale)”.
Con tale affermazione i Giudici di legittimità si trovano innegabilmente a contraddire lo stesso criterio fondante la decisione adottata, affermando di avere scelto di preservare non l’interesse attuale della minore, come dichiarato, bensì quello della minore di allora, dell’infante dell’epoca della sua fuoriuscita dalla casa familiare.

