L’AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
30/04/2025NESSUN DIRITTO DEL DISABILE A NON NASCERE
06/05/2025In sede di divorzio, la prova di essere privo delle risorse necessarie a vivere in modo dignitoso data dall’ex coniuge non sempre si rivela sufficiente a garantirgli il riconoscimento dell’assegno divorzile di cui faccia istanza. E ciò anche qualora risulti accertato che l’obbligato/a disponga dei mezzi economico-patrimoniali necessari e sufficienti ad una tale erogazione.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 10035/2025 del 16-04-2025.
La fattispecie presa in esame riguardava la domanda di assegno divorzile da parte di una giovane moglie disoccupata a carico dell’ex marito benestante dopo un matrimonio durato un lustro prima che intervenisse la separazione.
La particolarità del caso analizzato era data dal fatto che la moglie per i quindici anni dalla data del matrimonio a quella del divorzio non aveva fatto alcun concreto tentativo di inserirsi nel mondo del lavoro.
Relativamente alla concessione o meno dell’assegno divorzile, infatti, “il riconoscimento dell’assegno di divorzio, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 5 comma 6, richiede” sì “l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante”, presente nella fattispecie, ma anche “dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive”.
Una volta appurata l’esistenza delle risorse del chiamato a provvedere alla potenziale erogazione, quanto a sé stessa, era onere della prova della richiedente di non avere i mezzi di sussistenza, ma anche di esplicare e comprovare le ragioni che concretamente le avevano impedito e le impedivano di reperirseli autonomamente, secondo il criterio dell’ordinaria diligenza.
In base al principio di auto-responsabilità, sempre più valorizzato dalla giurisprudenza in materia di famiglia, la parte istante che non disponga di mezzi adeguati deve dare, in aggiunta, anche prova piena dell’oggettiva impossibilità di procurarseli secondo l’ordinaria diligenza, anche se la suddetta prova si può raggiungere anche tramite presunzioni e con valutazione resa in concreto e alla attualità dall’Autorità Giudiziaria chiamata a provvedere.
Ed infatti la Corte Suprema, nel caso in esame, ha escluso che la moglie non “potesse” provvedere al proprio sostentamento, data la giovane età (25 anni) alla data del coniugio, l’attesa – senza ricerca di occupazione – fino a raggiungere i 40 anni (peraltro avendo frattanto rifiutato gli impieghi offertile dall’ex marito sul presupposto che non fossero sufficientemente remunerativi e lasciato sfitto l’immobile intestato in sede separativa ai figli minori, mantenuti dal padre), oltre che l’assenza di qualsivoglia altro impedimento fisico, psichico od ambientale ad una tale auto-realizzazione sul piano personale.
Il fondamento dell’eventuale solidarietà post-coniugale, secondo la Corte di legittimità, risiede nella previa autonoma valorizzazione delle proprie potenzialità professionali e reddituali, in difetto della quale tale obbligo di solidarietà in capo all’ex coniuge non sorge.
Gli Ermellini hanno teso, con la pronuncia in oggetto, a disincentivare la condotta passiva, definita “deresponsabilizzante e attendista” del soggetto che si limita “ad aspettare opportunità di lavoro” piuttosto che concretamente attivarsi per reperirle, così “riversando sul coniuge più abbiente l’esito della fine della vita matrimoniale”.